- 1) La motivazione non richiede necessariamente la consapevolezza di avere una data di scadenza
- Prospettiva di cose belle
- 2) La morte è il problema, non è la soluzione
- Conclusioni
- Vedi anche
- Riferimenti
Alcune persone ritengono che la morte ci sproni a realizzarci. Per esempio, Neil deGrasse Tyson ha espresso la seguente opinione:
Vivere per sempre? Certo, è un’idea allettante, ma per come la vedo io è la consapevolezza che morirò a creare l’attenzione che metto nell’essere vivo, l’urgenza di realizzarmi, il bisogno di esprimere amore ora, non più tardi. Se viviamo per sempre, perché mai alzarsi dal letto la mattina? Si ha sempre un domani.
“Non hai paura di non esserci?”
Ho paura di vivere una vita in cui avrei potuto realizzare qualcosa e non l’ho fatto, ecco cosa temo. Non temo la morte.
Un video con il pezzo di intervista qui.
In sostanza Neil deGrasse Tyson sostiene che:
- la motivazione ad agire richiede necessariamente la consapevolezza di avere una data di scadenza;
- la sua più grande paura non è la morte, ma è non aver realizzato qualcosa che avrebbe potuto realizzare.
Rick Dufer ha sostenuto: “La morte ci permette di essere presenti a noi stessi quando siamo vivi” (https://youtu.be/vQ8fc8rhn88?t=980)
Proviamo a vedere bene se queste affermazioni reggono dal punto di vista logico, scientifico, biofilosofico e filosofico.
In breve (TL;DR):
- Dalla neurobiologia sappiamo che la motivazione non è basata sulla consapevolezza della morte, ma sulla prospettiva di ricompensa (di qualsiasi tipo, sociale, fisica, mentale, insomma di benessere, appagamento, piacere).
- Infatti, gli esseri umani che ancora hanno una nulla o bassissima consapevolezza della morte (bambini, adolescenti) sono motivati e agiscono tranquillamente, e lo stesso vale per gli altri mammiferi simili a noi (e in generale gli animali). Secondo l’opinione di Tyson, non sapendo di morire, non dovrebbero avere motivazione ad agire, quindi dovrebbero rimanere immobili. Ma così, ovviamente, non avviene. Evidentemente alla base della motivazione ci deve essere qualcos’altro. Questi controesempi sono sufficienti a smontare completamente l’argomentazione di Tyson e altri.
- Lo scopo ultimo è stare bene, essere felici, e la condanna a morte viola questo scopo fondamentale.
- Infatti la consapevolezza della morte, che annulla ogni prospettiva di benessere e miglioramento di lungo termine, agisce come demotivante a livello generale, cosa che diventa sempre più evidente con l’aumento dell’età (anche se poi, chiaramente, si manifesta diversamente in diverse persone). Banalmente, se ci fate caso quando parlate di cancro, malattie e morte, molti si intristiscono (“Oddio che depressione”) o vogliono cambiare argomento, perché amano parlare di cose belle ed essere spensierati. I tassi di suicidio aumentano con l’avanzare dell’età.
- Non solo l’urgenza non è l’unico fattore della motivazione, come ampiamente mostrato sopra, ma non ci si rende conto che la morte non è l’unica “deadline” a determinare urgenza, dato che ci possono essere altri tipi di scadenze impellenti, non mortali.
- La morte non è la soluzione, ma è il problema alla base della possibilità (e quindi della paura) di vivere una vita senza aver realizzato qualcosa. Un po’ come dire: “Non ho paura del Titanic che sta affondando, ho paura di non riuscire a finire il mio libro in tempo, ecco cosa temo (quindi meglio che affondi, almeno ho l’urgenza di finire il libro?)”. Peccato che sia proprio il Titanic che sta affondando a mettere a rischio la possibilità di leggere il libro…oltre che la salute. Se la nave rimane a galla si possono fare le cose che ci piacciono. Rose e Jack non hanno bisogno che il Titanic affondi per esprimere il loro amore.
Altre confutazioni e fallacie.
- Falsa causa: l’autore suggerisce che è la consapevolezza della nostra mortalità a creare un senso di urgenza e di concentrazione nella vita. Tuttavia, ci sono molti altri fattori che possono creare un senso di urgenza e concentrazione (cose meritevoli di attenzione, scadenze varie ma non mortali, …). L’attenzione che diamo all’essere vivi non deve necessariamente basarsi sulla consapevolezza della nostra mortalità. Potremmo tranquillamente concentrarci sul godere del nostro tempo di vita e vivere il momento senza preoccuparci del futuro.
- Anche l’idea che dobbiamo realizzare qualcosa per dare un senso alla nostra vita è sbagliata. Possiamo trovare un significato nella nostra vita attraverso le relazioni, le esperienze e semplicemente godendoci il momento.
- Appello alla paura: l’autore cerca di spaventare il lettore per convincerlo ad accettare il suo punto di vista dicendo che se vivremo per sempre, non realizzeremo mai nulla.
- Pendenza scivolosa: l’autore suggerisce che se vivremo per sempre, non ci alzeremo mai dal letto al mattino, uno scenario estremo e improbabile.
- Appello al ridicolo: nell’intervista si vede Neil deGrasse Tyson ridere di fronte alla desiderabilità di poter vivere senza dover morire.
1) La motivazione non richiede necessariamente la consapevolezza di avere una data di scadenza

Entriamo nel dettaglio. In quell’intervista presente nel video linkato sopra, Neil deGrasse Tyson chiede all’interlocutore se voglia vivere per sempre, e questi gli risponde di sì. Al che Tyson scoppia in una fragorosa risata, che è un argomento retorico definito appello al ridicolo. Di cattivo gusto anche perché l’interlocutore è visibilmente più anziano (cioè danneggiato). La cosa buona è che poi Tyson si ricompone e introduce la sua obiezione con “per come la vedo io”, ponendosi in un piano di opinione personale, quindi non sembra volerla imporre come valida per chiunque. È perfettamente lecito e sacrosanto esporre un proprio punto di vista, ma ciò non vuol dire che non si possa analizzare la fondatezza logica e fenomenologica di quel punto di vista.
Innanzitutto, la biologia, in particolare la neurobiologia e l’etologia, che sono le scienze di base del comportamento (e di comportamento si sta parlando), sono ben consapevoli che la motivazione non è basata sulla consapevolezza della morte, ma è invece basata sulla prospettiva di ricompensa (piacere, appagamento, benessere, gioia, passione). Il cervello è un organo predittivo che cerca di massimizzare la ricompensa (si parla di reward system) e minimizzare la sofferenza. Antonio Damasio, il neuroscienziato che ha rivoluzionato la comprensione di emozioni e sentimenti, scrive:
La neurobiologia dell’emozione e del sentimento ci spiega in termini suggestivi, che la gioia e le sue varianti sono preferibili al dolore e agli affetti simili, e sono inoltre più favorevoli alla salute e allo sviluppo creativo del nostro essere. Dovremmo dunque cercare la gioia, per decisione ragionata, e senza preoccuparci di quanto stupida e poco realistica possa sembrare quella ricerca.
Antonio Damasio
La consapevolezza della morte può sì creare un senso di urgenza, ma non è certo l’unico fattore: anche altri fattori, come una scadenza incombente non mortale, possono creare un senso di urgenza senza appunto scomodare la morte. Chiaramente, non esiste solo la morte del corpo come “deadline” (curioso termine).
Inoltre, a loro volta, le “deadline” non sono affatto l’unico fattore della motivazione: si può ovviamente essere stimolati a raggiungere un obiettivo perché lo si trova personalmente appagante, attraente, appassionante, non perché si teme la morte. Questo è il meccanismo normale che motiva l’azione (motivazione).
(In quest’ottica, il senso di urgenza si manifesta anche in un altro modo, ovvero come senso di mancanza, nel presente, di una certa cosa che ci piace, in forma di tristezza, senso di vuoto, frustrazione, ansia. Le emozioni si presentano proprio nel presente per spingerci verso ciò che ci fa stare bene, sempre per quel discorso dei complessi meccanismi di ricompensa, che sono anche alla base dell’apprendimento (reward learning).)
In effetti, se ci fate caso, Jack e Rose hanno fatto l’amore prima che il Titanic urtasse l’iceberg, e non dopo! Cioè non hanno avuto bisogno dell’urgenza della morte imminente per agire. L’urgenza te la mette in primis l’attrazione verso ciò che ti interessa veramente. Se un qualcosa ti piace, ti appassiona, sei motivato spontaneamente a farlo. Non fai qualcosa perché sai che devi morire (vedremo poi esempi che sono la prova schiacciante di questo). La procrastinazione è un problema che si ha con le cose che ci spaventano o annoiano, non è generalizzabile indiscriminatamente.
(Fare qualcosa per secondi fini e non per passione, esiste in questo mondo, e generalmente si porta dietro dei problemi: pensate a una persona che abbia scelto la professione medica per i vantaggi remunerativi e di status sociale che questa ha. Sono persone meno competenti, meno scrupolose, meno aggiornate rispetto a quelle che lo fanno per aiutare davvero le persone e con un interesse intellettuale per la medicina.)
Mi è toccato pure ascoltare la perversione secondo la quale si amerebbe qualcuno perché si sa che lo si perderà. Mentre stavo cercando di sopportare questa immane cazzata, mi passa davanti questa immagine, da un post di una pagina di psicologia, che mostra che, semmai, sapere della perdita può anche ostacolare certi sentimenti. Ma è solo un esempio.

Insomma, la consapevolezza della morte non è necessaria per la motivazione, dato che è sufficiente la prospettiva del piacere (cibo, compagnia, divertimento, amore, sesso, ecc.). In altre parole, siamo intrinsecamente motivati a fare ciò che ci piace e ci appassiona (o ciò che direttamente non ci piace ma che poi porta a sbloccare ciò che ci appassiona). Anzi si può dire che il piacere è alla base del senso della vita: prendete persone che stanno soffrendo di anedonia, cioè mancanza di piacere, e chiedetegli quanto abbia senso una vita in cui non si prova mai piacere, appagamento. Questo è proprio il concetto chiave sul senso della vita, come si evince anche dal dibattito etico sull’estensione della vita in relazione alla noia. [4]
Mi colpì anche una frase in un libro di addestramento dei cani: “I cani, come la maggior parte degli umani, non lavorano se non hanno una adeguata ricompensa“. Come è logico, giusto, sensato che sia da ogni punto di vista.
In quest’ottica, il gioco, più che la punizione, è uno strumento fondamentale di insegnamento e apprendimento, perché sfrutta un bisogno psicologico quasi universale. E vale per i premi in generale. Quando giochi a calcio o a tennis, ci giochi perché è divertente; vai in pizzeria con gli amici perché ti piace mangiare e parlare con loro, per conoscere nuove persone, ecc.; esci con una persona e la baci perché ne sei attratto e ti fa stare bene mentre stai con lei (non perché sai che è condannata!). Ci sono infiniti esempi. Vedi anche questo articolo sui cliché sulla morte.
Il valore delle cose non è dato dalla durata della vita, ma dalla qualità dell’esperienza (che alla fine dipende dalla capacità di provare emozioni e sentimenti). Chi dice che conta la qualità della vita e non la quantità, poi non si rende conto che si contraddice quando afferma che è la brevità della vita che la rende preziosa la vita: improvvisamente si parla solo di quantità e la qualità viene completamente ignorata (vedi anche le domande frequenti).
Falsificazione dell’ipotesi. Ci sono anche un paio di esempi concreti lampanti, che sono sufficienti a confutare radicalmente la tesi che la consapevolezza della morte (“tenere sempre presente l’inevitabilità della nostra morte”, “tenere in vista la fine”) sarebbe necessaria per la motivazione. Prendete bambini, i giovanissimi e gli animali. Sono pochissimo o per nulla consapevoli della morte – quindi proprio dalla parte opposta del “tenere bene in vista la fine”! – eppure trovano eccome la motivazione per alzarsi e per agire. I bambini giocano, imparano, mangiano perché provano queste attività piacevoli (ricompensa), e la stessa cosa vale per gli animali non umani, come ad esempio i cani, tipicamente pieni di gioia e vogliosi di giocare. Spesso si dice infatti che i bambini sono coloro che vivono meglio il presente, ma questo implica che (e parlo anche per esperienza personale) non serve affatto la consapevolezza della morte per godersi la vita, anzi, è semmai vero il contrario (ecco perché si dice che “la felicità è fatta di attimi di dimenticanza”… bisogna dimenticarsi le cose brutte della vita per essere felici).
Non a caso quando poi arriva la consapevolezza della morte, molti bambini hanno dei traumi e possono sviluppare anche dei disturbi (ansia generalizzata, depressione derealizzazione, ecc.). Benvenuti nella diversità, che è alla base dell’evoluzione biologica. Inoltre si sa chiaramente che infelicità e molte forme di depressione e ansia sono associate a malattie, lutti, esperienze traumatiche, quindi esperienze di vita negative (tutto ciò che minaccia gravemente il benessere e la nostra identità personale, tra cui appunto malattia e morte). Negative life events. Per lavoro devo leggere molta letteratura scientifica che tratta anche malattie, ansia, depressione ecc, e non ho mai trovato che tra i fattori di ansia e depressione ci siano positive life events. Sempre il contrario. Questo è un fatto consistente e cruciale. Chiaramente l’invecchiamento biologico, che è la principale causa di malattia e morte, causa negative life events come se piovesse (100 mila morti al giorno, senza contare le menomazioni e invalidazioni subletali).

Insomma, non so se ci rendiamo conto che le perdite non aumentano affatto la felicità.

Tutte queste argomentazioni sono più che sufficienti, ma come se non bastassero, riporto un brano di un articolo pubblicato su Le Scienze che parla del problema di come introdurre la morte ai bambini (ed è un problema proprio perché si deve introdurre una cosa problematica, non bella, non positiva, non motivante ma angosciante e destabilizzante), in cui viene riportata questa testimonianza di una madre:
Mia figlia è molto spaventata dal pensiero della morte […]. Purtroppo questa paura si ripresenta di frequente, con terribili crisi di pianto inconsolabile. Inizialmente ho cercato di rassicurarla spiegandole dolcemente il ciclo della vita, ma vedendo che la cosa aveva un effetto controproducente, di fronte alla sua esplicita richiesta “mamma, dimmi che io non morirò mai”, l’ho rassicurata dicendole che a lei non sarebbe mai accaduto. Durante queste crisi mi chiede se anche le altre persone che lei ama (nonni e genitori) un giorno diventeranno vecchi, si ammaleranno e moriranno. Altre volte la abbraccio forte e tento di cambiare argomento, di distrarla e di farla ridere. Mi si spezza il cuore davanti a queste sue paure e credo che siano troppo precoci in una bambina di tre anni.
“Mamma, dimmi che io non morirò mai”. Trovo interessante la consapevolezza forte della bambina che già intuisce che anche fra 800 anni vorrà stare bene, e quindi non vorrà mai morire: praticamente conosce solo il presente, e sa che nel presente non vuole morire.
E, guarda un po’, non sembra che la consapevolezza della certezza della morte abbia avuto un impatto particolarmente motivante o positivo, come sostengono Tyson e altri. Anzi, sembra che la bambina stesse proprio bene in una prospettiva di non mortalità. E non solo lei: io stesso, e altri miei amici e conoscenti abbiamo avuto esperienze simili. Tutto ciò ha perfettamente senso proprio alla luce dell’evoluzione, dato che, detto in poche parole, un sistema vivente sopravvive meglio quanto più si orienta a respingere e rifiutare la propria distruzione, e a tendere verso ciò che fa stare bene e protegge. Il discorso del “ciclo della vita”, che registra il record assoluto dei fraintendimenti biologici e dei bias, merita un approfondimento a parte, ma di base è una somma di fallacia naturalistica e ignoranza dei fondamenti dell’evoluzione.

La consapevolezza della morte tende a inibire la motivazione
La motivazione è massima quando:
- il nostro agire ha speranze di successo, e
- il premio è adeguato.
Viceversa, se mi devo sforzare per ottenere briciole, nulla, o addirittura sofferenza, la motivazione sarà bassissima. Il cervello può anche tendere a bloccare l’azione per evitare sofferenze e risparmiare energie (dirottandole su un certo tipo di cognizione) in attesa che la situazione si sblocchi, di tempi migliori, anche sollevando sintomi che possono purtroppo ricadere in diagnosi di depressione (il che non implica che ci sia una malattia da curare: si veda ad esempio qui).
Una prova è la seguente. Ricordo bene una persona di circa 60 anni che, in un commento su YouTube a un video sull’estensione della vita, scrisse che non aveva mai sentito parlare di ricerca sul ringiovanimento ed estensione della vita (anche se lui usò il termine improprio di “immortalità”), e che questa rinnovata speranza di futuro in buona salute giovanile gli aveva ridato la motivazione a prendersi cura di sé, in attesa di questi sviluppi per ritornare poi pienamente sé stesso. Questo è proprio un esempio del fatto che si può perdere la motivazione e lasciarsi andare, se si sa che tutto, a tendere, va allo sfascio a prescindere dalle nostre azioni, e non si può più fare ciò che si è sempre amato. Si deve anche tenere sempre presente che non tutti siamo fatti con lo stampino, dato che la diversità è alla base dell’evoluzione.
Tutto ciò accade perché, ovviamente, la morte e la sofferenza non sono percepiti come premi, ma come punizioni. Se il calcolo generale premi/punizioni (beneficio/rischio ecc.) pende drasticamente dalla parte del fail, l’azione tende ad essere inibita. Uno in genere fa cose se si aspetta poi di stare bene, di ottenere una bella situazione, o comunque per stare meglio. In sostanza l’azione cerca di massimizzare il piacere e minimizzare la sofferenza.
Anche il suicidio può essere spiegabile in termini di voler star bene, quindi di bilancio piacere/sofferenza: non si vuole stare sempre male, si vuole uscire da un dolore troppo grande e insuperabile e/o da una perdita definitiva di piacere. Si percepisce che la strada per la felicità è definitivamente sbarrata. La sofferenza è non-volere, cioè dispiacere, quindi spinge al cambiamento, che di solito è adattativo e utile, ma quando si è proprio al limite, il suicidio può anche essere visto come la forma estrema di cambiamento della propria situazione, anche a costo di andare verso l’ignoto.
Del resto, di fatto le persone che si suicidano sanno che sono comunque condannate a deperimento e morte, in futuro. Cioè nel senso…non è che ci sono grandi alternative, grandi speranze per il futuro. Anzi, “l’unica certezza è la morte”! Non c’è nel lungo termine l’opzione di migliorare, tornare a stare bene e poterci rimanere, finché siamo condannati a invecchiare, cioè a perdere vitalità, forma e funzionalità. L’invecchiamento è un gigantesco problema perché uccide alla base la speranza di miglioramento e recupero della salute, che è alla base di tutto il resto.
La consapevolezza della morte, quindi, può, in diverse persone, creare un senso di futilità e apatia generale, poiché la nostra motivazione ultima a stare bene è annullata dalla consapevolezza che qualsiasi azione che intraprenderemo non sarà efficace per portarci alla fine a stare bene (scopo ultimo della motivazione), perché, al contrario, saremo sempre più annientati, disintegrati. L’invecchiamento purtroppo è questo.

La morte, fino a prova contraria, non è benessere, bene-essere, non essendo nemmeno un “essere” (per stare bene bisogna come minimo stare, esistere). Paradossalmente, chi è più consapevole, cioè ha una visione più ampia e di lungo termine, potrebbe soffire di più (questo si collega al detto che “la felicità è una forma di ignoranza/dimenticanza”, oppure “beato te che non capisci niente” e simile). E soffre non per caso, ma perché la condizione rilevata è oggettivamente distruttiva, dato che uccide. Se riuscissimo a renderla non distruttiva, non sarebbe nemmeno più vero che la consapevolezza implica sofferenza. Dipende appunto dal contesto.
Ecco un esempio, un commento proprio sotto ad un articolo in cui in qualche modo si pensa di sostenere che brutte diagnosi o rischi di morte facciano apprezzare la vita, e cose del genere:
Nicola 02/02/2022. Ho avuto un incidente con la moto e sono quasi morto, da allora ho perso la felicità e interesse per la vita, mi sono reso conto che in qualsiasi istante si può morire e perdere tutto, quindi che mi danno a fare per vivere??? Tutti i giorni penso a quando arriverà quel momento e più che altro alla sofferenza che dovrò sopportare per poter trapassare, premetto che non credo in nessuna religione di questo mondo e ciò mi rende ancora piu problematica la morte della mia persona !!!!! Perché si nasce per poi morire??? Era meglio non nascere ……
Altro commento ad un video di youtube sull’invecchiamento:
Ho 35 anni e da bambino mi sono sempre chiesto che senso avesse la vita se poi si muore comunque. Sembra che si potrebbero fare più cose se vivessimo a tempo indeterminato. Non preoccuparsi di invecchiare e morire sarebbe fantastico. Forse le nostre menti si concentrerebbero sul risolvere altri problemi e creerebbero un legittimo paradiso terrestre
Altro commento:
lo sono un ragazzo e ho un terrore tremendo di invecchiare. […] Poi c’è il pensiero della morte inevitabile, che aumenta proporzionalmente all’avvicinarsi della vecchiaia e dopo una certa età non mi permetterebbe di vivere serenamente. A me la vita piace troppo, ed è terrificante sapere che un giorno quest’avventura dovrà terminare.
Ma non solo. Chi è più consapevole dell’invecchiamento biologico sa anche che la morte avviene per perdita progressiva di salute, resilienza e benessere. Quindi è come se il cervello, che è un organo predittivo evolutosi per ottimizzare la ricompensa, a un certo punto (sia della filogenesi, sia dello sviluppo individuale) si rendesse conto che i suoi sforzi non sono premiati, e sono in ultima analisi vani. Il che naturalmente non aiuta la motivazione, e nemmeno la serenità. Perché agire, si chiede il cervello lungimirante, se invece che migliorare (!), si peggiora sempre più fino a morire? La prospettiva di ricompensa è sempre più negativa, quindi la spinta all’azione potrebbe tendere ad annullarsi. Avrebbe senso agire per poter migliorare oppure continuare a stare bene, non certo peggiorare. Questo implica un senso generale di futilità e insensatezza, a seconda della diversità individuale, delle esperienze, e della situazione in cui uno versa. Una delle “soluzioni” trovate, naturalmente, è sperare in una ricompensa post-mortem (ad es. la gioia eterna del paradiso delle religioni).
Chiaramente la consapevolezza può arrivare in vari modi a seconda del proprio vissuto, prima o dopo, improvvisamente o meno. E quando la morte e l’invecchiamento sono percepiti come lontanissimi, è più facile agire senza pensarci, motivati dalla bellezza del presente (anche lo stesso geroscienziato Felipe Sierra riporta un’esperienza del genere). Molte persone che citano la morte come motivante sembrano ignorare completamente la bellezza del presente. Se vivessimo indefinitamente, il presente scomparirebbe? Non mi pare….
Ora qui è importante osservare una cosa. Prendere consapevolezza dell’invecchiamento e della morte come problemi, quindi ascoltando profondamente ciò che ci dicono sentimenti ed emozioni, senza distorcerle, quindi tenendo ferma la sofferenza di questa condizione, ha il senso di motivare al cambiamento verso una condizione umana radicalmente migliore. È il solito tema: resilienza vs cambiamento. Dobbiamo sopportare l’insopportabile e accettare l’inaccettabile all’infinito?
Infatti, chi è più consapevole della relazione invecchiamento-salute e della sua modificabilità, potrà essere molto motivato nella direzione di risolverlo, dato che ha di fronte la percezione di un reward enorme: come molti di coloro che fanno ricerca e divulgazione in questo campo, ad esempio David Sinclair, Alex Zhavoronkov, Andrew Steele, molti altri geroscienzati o biogerontologi ad esempio dei gruppi di Calico, Altos Labs, eccetera. Ma non è che queste persone non trovassero un senso alla vita prima o non hanno una vita piena: stanno semplicemente cercando di prevenire o risolvere ciò che toglierà (o ha già tolto significativamente) loro la gioia di vivere, le persone care. Molti di loro hanno esperienze di perdita con nonni, genitori, persone care, animali, o con loro stessi. E questo in molte persone, a seconda delle circostanze dell’evento negativo di vita, fa sì che si scelga un tipo di studio o carriera piuttosto che un’altro.
Prospettiva di cose belle
Avere ancora tempo per realizzare e/o continuare a vivere i propri sogni e ampliarli, è la cosa che più di tutte è in grado di togliere ansia, e dare serenità, tranquillità, ottimismo, speranza. Parlo anche per esperienza personale, e di amici.

È bellissimo il periodo che, quando va bene, dura decenni, in cui si può sempre crescere e ricominciare partendo da sé stessi, con un sé biologicamente integro (periodo della giovinezza biologica). Dopo una delusione di amore, o dopo un fallimento o perdita di qualsiasi tipo, se hai ancora l’integrità di te stesso, se hai 18, 20, 25 anni, a volte anche 30, puoi ricominciare, puoi ripartire. Puoi applicare quello che hai appreso con l’esperienza. Ecco perché il sogno di tutti (tra cui Michael Douglas, vedi video sotto) è tornare giovane con le conoscenze di adesso!
Viceversa, la condizione in cui è troppo tardi e non si può fare più niente per raggiungere quella che per noi è la condizione di felicità (indipendentemente da ciò che è stato in passato), la condizione di essere in trappola, è una delle più orribili cose che si possano provare, e infatti è associata a infelicità, angoscia, disperazione e anche suicidio.

E attenzione. Si può sentire in trappola anche chi non ha rimpianti! Anzi, alcuni soffriranno pure di più per non poter provare più ciò che hanno provato di bello in passato. È il fatto che abbiamo un conto alla rovescia a causare questo problema, e non a risolverlo (si noti che il conto alla rovescia esiste perché il corpo umano non riesce attualmente a riparare completamente tutti i danni biologici, che quindi si accumulano).

Lascia sconcertati che alcuni non si rendano conto di questo.
“Quando sei giovane, ti sembra che ogni cosa sia la fine del mondo”.
Come si vede in una scena del film 17 again (“Quando sei giovane ti sembra che ogni cosa [negativa, NdR] sia la fine del mondo”), la percezione della fine è ciò che fa stare male psicologicamente. Non si soffre perché si è giovani, ma perché può capitare di perdere ciò che è amabile, e si può drammatizzare una perdita ignorando che ci sarà ancora tempo per ricominciare (quello che manca sempre più invecchiando, insieme all’integrità). Il fatto che le emozioni siano forti, cosa tipica della giovinezza, fa parte del sistema di apprendimento per rinforzo da eventi positivi e negativi. Il cervello è molto plasmabile, e deve adattarsi all’ambiente in cui si ritrova, non prevedibile a priori, cercando di ottimizzare la ricompensa futura. I dati che arrivano al cervello hanno mostrato che una cosa ritenuta importante è stata persa, e non essendoci certezze sul futuro, questo richiede memoria ed elaborazione, per massimizzare la ricompensa futura in un tempo limitato, e cercare di proteggersi maggiormente. Emozioni più forti sono associate a maggiore consolidamento mnemonico, in ottica adattativa. Si deve imparare a proteggersi, e in fretta, perché l’orologio fa tic tac.
Chi è più grande tende a consolare chi è più piccolo perché non ha l’esperienza dei molti anni ancora davanti. (Ma chi è che ha ragione? Non c’è mica la certezza di avere molti anni, e questo l’evoluzione in qualche modo lo ha inciso nel comportamento.) La consolazione “universale” che si cerca sempre di proporre a chi soffre psicologicamente è che non tutto è perduto, non è la fine, e ci sarà ancora tempo per tornare a stare bene. Ci sarà una prossima volta.
Non so se è chiaro. Non è che per consolare una persona triste si dica: “È la fine!”, “Tranquillo, tanto sei condannato a morte”, oppure “Non preoccuparti, il tempo stringe, non hai tempo”, “Ormai è tardi”, “Hai perso tutti i treni”, “ormai sei vecchio”! Anzi, le frasi consolatorie sono “prenditi il tuo tempo”, “datti tempo”, “il tempo cura le ferite” , “tornerai più in forma di prima”, “sei giovanissimo”, “hai tutta la vita davanti”, eccetera. Quindi, si vuole che il tempo ci sia, e si vuole tornare a stare bene.

Vedi anche l‘articolo su felicità e prospettiva, in cui citiamo Bruce Springsteen e la visione tendenzialmente opposta a questa qui confutata.
Un video divulgativo ben fatto sul tema “La morte dà significato alla vita?” in cui è riportata anche l’intervista con Neil deGrasse Tyson: Death, life, and meaning walk into a bar… | LifeXtenShow.
Qui invece un altro video, carino, ma in cui emerge una contraddizione simile, una cosa tipo: “Se penso alla morte le cose non hanno più senso, ma se ci penso faccio più cose”: Sapere di morire. La condizione umana | Just Mick. Una confutazione al volo è che a me non interessa fare mille cose, mi interessa fare le cose che amo con i miei tempi, ovvero privilegiare la qualità, ed essere felice, tendere a stare bene, non il contrario.
Per una dissertazione filosofica approfondita e puntuale sull’etica dell’estensione della vita, in cui trovate anche i temi del senso della vita e della ipotetica noia, si veda il lavoro di Bunn del 2015 [4].
2) La morte è il problema, non è la soluzione
Veniamo all’altra frase, che potrebbbe lasciare ancora più perplessi, dal punto di vista logico, proprio partendo dalla prospettiva dell’autore. “Ho paura di vivere una vita in cui avrei potuto realizzare qualcosa e non l’ho fatto, ecco cosa temo. Non temo la morte.”
Peccato che il non poter più realizzare qualcosa dipenda esclusivamente da un unico fatto: dall’essere danneggiati in modo irreparabile, irreversibile, tra cui essere morti. Infatti, se si è perfettamente integri, oppure se si potrà tornare in forma in futuro, non ci si trova nella condizione di non poter più realizzare qualcosa, tanto temuta da Tyson. Quindi il danno è alla base del problema.
Il risultato dell’accumulo dei danni (molecolari e cellulari) è proprio ciò che, biologicamente, è l’invecchiamento. Ricordandoci che “solo alla morte non c’è rimedio”, dato che la speranza e l’ultima a morire, si dovrebbe capire che l’invecchiamento e la morte sono il problema alla base della paura di Tyson. Quindi, se sono il problema, non sono la soluzione.
Sarebbe come dire che boh, sapere che mi mangerà un leone mi fa fare più cose prima che il leone mi mangi. Quindi sapere del leone è importante… Sì, ma dipende dall’esistenza del leone, quindi tutto questo ragionamento crolla se il leone non c’è o non può mangiarmi perché evito a priori contesti in cui c’è la possibilità di incontrarlo, eccetera. Quindi non si può poi dimenticarsene e dire “Ah tu vuoi che non ci sia il leone?” – “Sì.” – “Ahahahah e dopo come fai a fare le cose?”.
Un’obiezione classica sentita spesso sulla morte è: “A volte la morte è una liberazione”. Sì, certo, entriamo nei dettagli, quali volte? Quelle in cui c’è una condizione di danno/sofferenza irreversibile, cioè da cui non ci si può liberare. Quindi dipende sempre dalla reversibilità, risolvibilità del problema. Ma questa riflessione essenziale manca praticamente sempre. Ed è una conferma del fatto che la sofferenza è l’indesiderato, e quindi del concetto della minimizzazione del dolore e massimizzazione dell’appagamento (reward system). E anche se fosse una “liberazione”, non è comunque un qualcosa che risolve il problema e riporta a stare bene (“L’operazione è andata bene, ma il paziente è morto”). Si sta buttando il bambino con l’acqua sporca.
Chiaramente, finché ci sarà l’invecchiamento, cioè l’accumulo di danni che non riusciamo attualmente a riparare, il problema dell’irreversibilità, dei bei tempi che non tornano di cui parlano tutti (poi dimenticandosene), si presenterà. Nel presente.
Conclusioni
L’argomentazione che sostiene che il fatto che moriremo sia l’unico stimolo per agire, e che la morte non è un problema anzi spinge a fare cose, si basa su diversi errori fondamentali.
- Ridotta o nessuna consapevolezza di come funzionino le emozioni e la motivazione, con una svalutazione delle passioni, della bellezza, in generale delle emozioni nel presente, soprattutto quelle positive, ma anche negative: entrambe spingono verso lo stare meglio in futuro (o ugualmente bene), a seconda delle condizioni in cui ci troviamo;
- ignorare il presente: si ignora che il nostro spazio di pensiero e le nostre emozioni sono ben vive nel presente, e quindi ci motivano verso il bello anche se non sapessimo di morire (vedi bambini e altri animali), o se sapessimo che abbiamo secoli o millenni davanti: se un qualcosa ci piace veramente non vogliamo che muoia, e non abbiamo bisogno di minacce di morte per viverlo, dato che appunto esistono, udite udite, anche le spinte attrattive spontanee, che non si basano sulla consapevolezza della morte (purtroppo molti filosofi non hanno lo sguardo del biologo, dell’etologo e dell’evoluzionista);
- non comprendere che la motivazione di base punta verso lo stare bene, non verso la distruzione;
- ignorare le connessioni tra morte, salute e qualità di vita, e tra queste e la motivazione: in sostanza si muore per danneggiamento che causa perdita di funzione e salute, e questo aumenta dolore e sofferenza (invece che aumentare il piacere che è alla base del senso della vita); inoltre la prospettiva di morte è demotivante perché non porta a una ricompensa, ma a ciò che è più temuto;
- elevare il rimpianto a unico problema, come se le persone senza rimpianti, ma con gravi malattie e senza prospettive di benessere, condannate a morte, dovessero stare bene solo perché non hanno rimpianti (è una fallacia ricorrente secondo cui evitare il caso ritenuto peggiore, tra i due presi in considerazione, sia sufficientemente desiderabile).
- Un’enorme svista logica (una sorta di glitch mentale) in cui si confonde il problema con la soluzione, dimenticandosi che è proprio la morte (e ciò che la causa, come l’invecchiamento e qualsiasi tipo di grave danno) a creare lo scenario temuto in cui è troppo tardi per poter agire.
Vedi anche
- (YouTube) Death, life, and meaning walk into a bar… | LifeXtenShow (La morte dà significato alla vita?)
- Condizioni di felicità
- FAQ su invecchiamento, ringiovanimento ed estensione della vita
- Aspetti etici del ringiovanimento e dell’estensione della vita
- Invecchiamento e perdita di identità
- https://medium.com/lifespan-io/the-misconception-of-the-two-deaths-353c8bb377f7
- ‘It Sucks Getting Old’ Robert De Niro & Michael Douglas Explaining Why (Extended)
- What does it feel like to be old and alone?
- Why die?
Riferimenti
- Liu, Bette, Sarah Floud, Kirstin Pirie, Jane Green, Richard Peto, and Valerie Beral. 2016. Does Happiness Itself Directly Affect Mortality? The Prospective UK Million Women Study. The Lancet 387 (10021): 874–81. https://doi.org/10.1016/s0140-6736(15)01087-9.
- Kandel, Eric R., James H. Schwartz, Thomas M. Jessell, Stevan A. Siegelbaum, A. J. Hudspeth, Virgilio Perri, and Giuseppe Spidalieri. 2015. Principi Di Neuroscienze. Casa Editrice Ambrosiana.
- Damasio, Antonio R. Alla ricerca di Spinoza: emozioni, sentimenti e cervello. Adelphi, 2007.
- Bunn, A. (2015). How Long Ought We To Live: The Ethics of Life Extension. [Doctoral Thesis, Charles Sturt University]. Charles Sturt University.
