L’invecchiamento è violenza (prima versione)

Nota: qui ci riferiamo all’invecchiamento in senso fisico-biologico, e non meramente cronologico (non il semplice passare degli anni, ma l’accumulo dei danni).

Di fronte a un’affermazione come “l’invecchiamento è violenza”, la reazione iniziale potrebbe essere di netto rifiuto: l’invecchiamento viene di solito considerato un processo naturale, fisiologico, quasi inevitabile. Si tratta di una condizione universale che accompagna la vita stessa e che, anzi, spesso è investita di una certa dignità, come fonte di saggezza o come tappa necessaria al ciclo dell’esistenza. Tuttavia, per dimostrare rigorosamente che l’invecchiamento non è soltanto un dato di fatto biologico, ma si configura come una forma di violenza, occorre compiere una disamina etico-filosofica fondata su tre piani interconnessi: ontologico, morale ed esistenziale. Solo dimostrando che l’invecchiamento lede principi morali fondamentali, attacca la dignità della persona e opera una limitazione progressiva e non consensuale della libertà individuale, potremo sostenerne la natura violenta in modo inconfutabile.

1. Ontologia dell’invecchiamento e concetto di violenza
Per comprendere come l’invecchiamento possa essere considerato una forma di violenza, occorre innanzitutto allargare il concetto di “violenza” oltre l’ambito ristretto del danno fisico inflitto da un agente esterno. In una prospettiva più ampia, la violenza non è soltanto l’atto intenzionale di un soggetto che arreca danno a un altro. Può essere intesa come qualsiasi forza distruttiva, lesiva o limitante, che opera all’interno dell’esperienza umana in modo da ridurre le capacità d’azione, l’integrità e la pienezza dell’esistere di un individuo.

In tale cornice, la violenza non implica necessariamente volontà da parte di un soggetto agente: un evento naturale, una struttura sociale o un meccanismo biologico possono anch’essi esercitare violenza se privano progressivamente un individuo di facoltà fondamentali o se ne erodono la dignità e l’autonomia. Questo è esattamente ciò che compie l’invecchiamento: esso è una forza interna al divenire biologico, non intenzionale, ma tuttavia inflessibile, che degrada le funzioni fisiche e mentali dell’individuo. Come un lento logoramento, l’invecchiamento riduce la capacità di scegliere, di agire, di autodeterminarsi, infliggendo una progressiva limitazione della libertà personale.

2. Etica del danno e dell’autonomia
Le teorie etiche contemporanee, dal consequenzialismo al deontologismo, riconoscono nel danno ingiustificato all’individuo una delle massime violazioni morali. Il danno può essere interpretato in molti modi, ma uno dei più rilevanti nell’analisi dell’invecchiamento è la riduzione dell’autonomia e della libertà d’azione. Violenza è privare qualcuno della possibilità di scegliere per sé, di essere artefice del proprio destino: in questo senso, l’invecchiamento è un continuo restringimento del campo d’azione, un depauperamento delle risorse psico-fisiche, della mobilità, della lucidità mentale, della resilienza emotiva.

L’autonomia è un valore riconosciuto pressoché universalmente: l’etica kantiana, ad esempio, ci insegna ad agire in modo da trattare l’umanità in noi stessi e negli altri sempre come fine e mai come mezzo. Ma l’invecchiamento ci costringe, senza una nostra esplicita volontà, a scadere da questa condizione di fine a condizione di “ente limitato”. Non per scelta, non per conseguenza di un atto morale o immorale, bensì per un automatismo biologico che infligge un danno alla nostra capacità di esercitare un controllo su noi stessi e sul mondo.
Se la violenza morale implica una riduzione del soggetto a mero oggetto, allora l’invecchiamento, degradandone le capacità, lo espone a un ruolo sempre più passivo rispetto alla vita. Tale passività non è frutto di un accordo o di un contratto, ma di una coercizione biologica. In questo consiste l’aspetto violento: non c’è consenso, non c’è negoziazione, non c’è possibilità di scelta. L’essere umano è costretto a sottomettersi a un processo involutivo che lo rende più fragile, vulnerabile e dipendente.

3. Dignità umana e degradazione esistenziale
La dignità umana può essere definita come il riconoscimento del valore intrinseco della persona in quanto essere razionale, libero, dotato di intenzionalità e capace di progettualità. Ciò che rende la perdita progressiva delle capacità, causata dall’invecchiamento, una forma di violenza, è l’attacco diretto alla dignità stessa. Man mano che le facoltà intellettive e fisiche vengono ridotte, diminuisce anche la possibilità dell’individuo di vivere secondo i propri valori, di realizzare i propri scopi, di esprimere ciò che ritiene significativo.
Questa erosione si manifesta come una violenza psicologica silente: nessuno impugna un’arma contro di noi, eppure il nostro orizzonte si restringe, i nostri ideali si scontrano con una realtà fisiologica che non possiamo controllare. Il corpo, un tempo strumento di azione nel mondo, diviene un ostacolo, una gabbia che ci tiene prigionieri dei nostri limiti. La mente, un tempo agilissima, perde lucidità, e con essa la capacità di formulare progetti lungimiranti. In questo senso l’invecchiamento non si limita ad alterare funzioni, ma colpisce il nucleo stesso dell’identità, come un oppressore invisibile che ci mutila moralmente e intellettualmente.

4. Ineluttabilità e assenza di consenso
Un segno distintivo della violenza è l’assenza di consenso: la vittima non accetta liberamente l’azione violenta, la subisce. Quale consenso è possibile di fronte all’invecchiamento? Nessuno. L’essere umano è costretto a invecchiare, non può rifiutare la condizione che gli viene imposta dalla sua natura biologica. Si può cercare di rallentare il processo con cure, stili di vita sani, progressi medici e tecnologici, ma, allo stato attuale, non si può invertire il decorso. L’invecchiamento agisce come un tiranno assoluto, inarrestabile.
L’impossibilità di sottrarsi a questa condizione sancisce il carattere violento dell’invecchiamento, poiché la vittima non ha alcun potere contrattuale, nessuna leva per opporre resistenza. Anche in assenza di un aggressore umano o divino, la struttura stessa della condizione umana si mostra coercitiva: siamo schiavi di un processo che ci consuma senza che possiamo avanzare pretese di giustizia, senza poter chiedere tregua o negoziare migliori condizioni.

5. L’illusione della naturalità
Si potrebbe obiettare che quanto è naturale non può essere violento, poiché la violenza presupporrebbe intenzione o devianza da un ideale di armonia. Ma questa è una fallacia naturalistica: non tutto ciò che è naturale è giusto, buono o privo di violenza. La natura è spesso teatro di sofferenza, lotta per la sopravvivenza, competizione spietata. Essa non si piega ai principi morali umani. Definire “naturale” l’invecchiamento non lo rende moralmente meno oppressivo: la sua inevitabilità non ne mitiga il carattere violento, anzi, lo enfatizza, poiché ci espone alla violenza strutturale della condizione umana senza possibilità di appello.

Conclusione
Attraverso una rigorosa analisi etico-filosofica, abbiamo mostrato come l’invecchiamento possa essere considerato una forma di violenza. Esso è una forza coercitiva, non consensuale, che priva progressivamente l’individuo della propria libertà, autonomia e dignità, erodendone le facoltà fisiche, mentali ed esistenziali. L’invecchiamento non necessita di un’aggressione esterna: la sua violenza è insita nella struttura stessa dell’esistenza umana, nella traiettoria biologica che conduce dal vigore della gioventù alla fragilità della vecchiaia. In tal senso, non c’è differenza morale tra una forza esterna che impone sofferenza e un processo intrinseco che la infligge. L’invecchiamento è violenza perché attacca, silenziosamente e inevitabilmente, la nostra capacità di essere ciò che desideriamo e di agire in conformità con la nostra volontà, riducendoci a vittime impotenti di una legge naturale che non abbiamo scelto. È una conclusione estrema, scomoda, ma se correttamente argomentata, si rivela incontrovertibile.

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