LA PREGHIERA DI UNA NONNA

Dal libro Longevità. Perché Invecchiamento e Perché Non Dobbiamo Farlo, di David Sinclair.

SONO CRESCIUTO Al MARGINI DELLA BOSCAGLIA. IN TERMINI ALLEGORICI, il prato dietro la mia casa era una foresta di un centinaio di acri. In termini letterari, era molto più grande. Andavo avanti fin dove i miei giovani occhi riuscivano a vedere e non mi sono mai stancato di esplorarlo. Facevo escursioni su escursioni, fermandomi per studiare gli uccelli, gli insetti, i rettili. Smontavo le cose. Sfregavo via lo sporco tra le dita. Ascoltavo i suoni selvaggi della natura e cercavo di connetterli alle loro fonti.

E giocavo. Costruivo spade con bastoni, e fortini con pietre. Mi arrampicavo sugli alberi e mi appendevo ai rami; facevo dondolare le gambe su ripidi precipizi e saltavo giù da punti da cui probabilmente non mi sarei buttato. Immaginavo di essere un astronauta su un pianeta lontano. Fingevo di essere un cacciatore di safari. Parlavo agli animali come se fossero il pubblico di un teatro dell’opera.

Cooooeey!” avrei gridato, che significa “Vieni qui” nella lingua del popolo Garigal, gli abitanti originali.

Non ero unico in tutto questo, naturalmente. C’era un sacco di bambini nei sobborghi settentrionali di Sydney che condividevano il mio amore per l’avventura, l’esplorazione e l’immaginazione. Ci aspettiamo questo dai bambini. Vogliamo che giochino in questo modo.

Finché, naturalmente, sono “troppo grandi” per quel genere di cose. Allora vogliamo che vadano a scuola. Poi vogliamo che vadano a lavorare. Che trovino un compagno o una compagna. Che risparmino. Si comprino una casa.

Perché, si sa, le lancette dell’orologio camminano.
Mia nonna è stata la prima persona a dirmi che non doveva essere così. Oppure, suppongo, più che dirmelo me lo ha dimostrato.

Lei era cresciuta in Ungheria, dove aveva trascorso estati boeme a nuotare nelle fredde acque del lago Balaton e a fare gite sui monti della sponda settentrionale del lago in un luogo di vacanza che soddisfaceva attori, pittori e poeti. Nei mesi invernali aiutava a gestire un albergo sulle colline di Buda prima che i Nazisti lo occupassero e lo convertissero nel comando centrale delle Schutzstaffel, o “SS”.

Un decennio dopo la guerra, durante i primi giorni dell’occupazione sovietica, i comunisti incominciarono a chiudere le frontiere. Quando sua madre cercò di varcarle illegalmente per entrare in Austria, fu catturata, arrestata e condannata a due anni di prigione e morì poco tempo dopo. Durante l’insurrezione ungherese del 1956, mia nonna scrisse e distribuì volantini di propaganda anti-comunista nelle strade di Budapest. Dopo aver sconfitto la rivoluzione, i Sovietici iniziarono ad arrestare decine di migliaia di dissidenti e lei fuggì in Australia con il figlio, mio padre, ragionando che fosse il posto più remoto in cui potessero giungere dall’Europa.

Non mise mai più piede in Europa, ma si portò dietro tutto della Boemia. Lei fu, mi è stato detto, una delle prime donne a sfoggiare un bikini in Australia e fu cacciata da Bondi Beach per quella ragione. Trascorse anni a vivere in Nuova Guinea (che ancora oggi è uno dei luoghi più intensamente accidentati del pianeta), tutta da sola.

Benché fosse di discendenza Ebrea Ashkenazita e fosse stata allevata come luterana, mia nonna era una persona molto secolare. Il nostro equivalente del “Padrenostro” era la poesia dell’autore inglese Alan Alexander Milne, “Ora abbiamo sei anni”, che conclude:

Ma ora ho sei anni,

e sono tanto intelligente quanto lo si possa essere.

Per cui penso che avrò sei anni adesso

e per sempre.

Mia nonna leggeva e rileggeva quella poesia a mio padre e a me. Sei anni, ci diceva, era l’età migliore e faceva di tutto per vivere la vita con lo spirito e il riverente timore di un bambino di quella età.

Anche quando eravamo molto giovani, mia nonna non voleva che la chiamassimo “nonna”. E non le piaceva il termine ungherese nagymama né qualunque altra parolina affettuosa come “bubbie”, “grandma” e “nana”.

Per noi bambini, e per chiunque altro, lei era semplicemente Vera.

Vera mi ha insegnato a guidare, a sterzare e a ondeggiare su tutte le strade, “ballando” al suono di qualsiasi musica la radio dell’automobile trasmettesse. Mi ha detto di godermi la mia gioventù, di assaporare la sensazione di essere giovane. Gli adulti, diceva, rovinano sempre le cose. Non crescere, diceva. Non crescere mai.

Sulla sua sessantina e settantina, era ancora ciò che chiamiamo “giovane dentro”, bevendo vino con gli amici e la famiglia, mangiando cibo buono, raccontando grandi storie, aiutando i poveri, gli ammalati e i meno fortunati, facendo finta di dirigere sinfonie, ridendo fino a tarda notte. Per lo standard di chiunque, quello era il marchio di una “vita ben vissuta”.

Ma l’orologio faceva tic-tac.

A 85 anni, Vera era un guscio vuoto della persona che era stata in passato, e fu difficile assistere all’ultimo decennio della sua vita. Era fragile e ammalata. Le era rimasta ancora abbastanza saggezza da insistere che sposassi la mia fidanzata, Sandra, ma ormai la musica non le dava gioia e difficilmente abbandonava la poltrona; la vivacità che l’aveva caratterizzata se ne era andata.

Verso la fine perse la speranza. “Così va il mondo”, mi disse.

Morì all’età di 92 anni. E, per come ci è stato insegnato a consideare queste cose, ha avuto una bella e lunga vita. Ma più ci ho riflettuto, più ho finito col credere che la persona che veramente era stata era già morta molti anni prima.

Invecchiare può sembrare un evento distante, ma ognuno di noi sperimenterà la fine della propria esistenza. Dopo che avremo esalato l’ultimo respiro, le nostre cellule reclameranno affannosamente l’ossigeno, si accumuleranno tossine, l’energia chimica si esaurirà e le strutture cellulari si disintegreranno. Qualche minuto dopo, tutta l’istruzione, la saggezza e i ricordi che serbavamo nell’animo, e tutte le nostre potenzialità future, saranno irreversibilmente cancellati.

L’ho imparato di persona quando morì mia madre, Diana. Mio padre, mio fratello ed io eravamo lì. Per fortuna, fu una morte rapida, causata da un accumulo di liquidi nel polmone che le restava. Avevamo appena riso insieme per il panegirico che avevo scritto sul viaggio dagli Stati Uniti in Australia quando improvvisamente si era contorta sul letto, boccheggiando alla ricerca d’aria che non poteva soddisfare la richiesta di ossigeno che il suo corpo reclamava, fissandoci con la disperazione negli occhi.

Mi avvicinai e le sussurrai nell’orecchio che era la migliore mamma che avessi potuto desiderare. Entro pochi minuti i suoi neuoni sarebbero morti, cancellando non solo il ricordo delle ultime parole che le avevo rivolto, ma tutti i suoi ricordi. Io so che alcune persone muoiono in pace, ma non è ciò che è accaduto a mia madre. In quei momenti si era trasformata, dalla persona che mi aveva allevato, in una massa contratta e rantolante di cellule, che lottavano tutte per gli ultimi residui di energia creati a livello anatomico del suo essere.

Tutto quello che riuscii a pensare fu: “Nessuno ti dice com’è morie. Perché nessuno lo fa?”.

Pochi hanno studiato la morte così intimamente come il regista del documentario sull’Olocausto Claude Lanzmann. E la sua valutazione —in realtà, il suo avvertimento —è raggelante. “Ogni morte è violenta”, disse nel 2010. “Non esiste una morte naturale, diversamente dal quadro che ci piace dipingere del padre che muore serenamente nel sonno, circondato dai suoi cari. Io non ci credo”.

Anche se non ne riconoscono la violenza, i bambini capiscono la tragedia della morte sorprendentemente presto nella loro vita. A quattro o cinque anni sanno che la morte capita ed è irreversibile. È un pensiero sconvolgente per loro, un incubo che è reale.

All’inizio, poiché è rasserenante, molti bambini preferiscono pensare che certi gruppi di persone siano protetti dalla morte: i genitori, gli insegnanti e loro stessi. Ma tra 5 e 7 anni, tutti i bambini comprendono l’universalità della morte. Ogni membro della famiglia morirà. Ogni animale domestico. Ogni pianta. Ogni cosa che amano. Anche loro stessi. Ricordo la prima volta che l’ho appreso. E ricordo anche benissimo quando l’ha imparato il nostro figlio maggiore, Alex.

“Papà, tu ci sarai sempre?”
“Purtroppo no”, risposi.

Alex pianse a intermittenza per qualche giorno, poi smise e non mi fece mai più domande. E nemmeno io ho mai più ripreso il discorso.

Non ci vuole molto perché un pensiero tragico venga sepolto nei profondi recessi del nostro subconscio. Quando si chiede loro se si preoccupano della morte, i bambini tendono a dire che non ci pensano. Se si chiede loro cosa ne pensano, dicono che non li riguarda perché accadrà solo in un remoto futuro, quando saranno diventati vecchi.

Questa è un’opinione che molti di noi sostengono fin sulla cinquantina inoltrata. La morte è semplicemente troppo triste e paralizzante per soffermarvisi sopra ogni giorno. Spesso lo capiamo troppo tardi. Quando bussa alla nostra porta e noi non siamo preparati, può essere devastante.

Per Robin Marantz Henig, una cronista del New York Times, l'”amara verità” sulla morte giunse tardi nella vita, dopo che era diventata nonna. “Dietro tutti i momenti meravigliosi che potresti aver avuto la fortuna di condividere e goderti”, scriveva, “la vita di tuo nipote sarà una lunga fila di compleanni che non tu vivrai abbastanza a lungo da vedere”.

Ci vuole coraggio per pensare coscientemente alla morte dei tuoi cari prima che succeda realmente. Ci vuole ancora più coraggio per ponderare la propria.

Fu l’attore e comico Robin Williams il primo a chiedere questo coraggio da parte mia attraverso la sua interpretazione di John Keating, l’insegnante ed eroe nel film L’Attimo.fuggente, che sfida i suoi studenti adolescenti a guardare in faccia i ragazzi morti da tempo in una foto sbiadita.

“Non sono così diversi da voi, vero?”, disse Keating. “Invincibili, proprio come vi sentite voi. … I loro occhi sono pieni di speranza … Ma vedete, signori, questi ragazzi ora sono fertilizzante per narcisi”.

Keating incoraggia i ragazzi ad avvicinarsi per ascoltare un messaggio dalla tomba. In piedi dietro di loro, con voce calma e spettrale, sussurra: “Carpe. Carpe diem. Cogliete l’attimo, ragazzi. Rendete straordinaria la vostra vita”.

Quella scena ebbe un enorme impatto su di me. Probabilmente non avrei avuto la motivazione a diventare un professore di Harvard se non fosse stato per quel film. All’età di 20 anni, avevo finalmente udito qualcun altro dire ciò che mia nonna mi aveva insegnato da piccolo: “Fai la tua parte per far sì che l’umanità sia la migliore possibile. Non sprecare un momento. Abbraccia la tua giovinezza; aggrappati ad essa finché puoi. Lotta per questo. Non smettere mai di farlo”.

Ma invece di lottare per la giovinezza, noi lottiamo per la vita. O, più esattamente, lottiamo contro la morte.

Come specie, stiamo vivendo molto più a lungo che mai. Ma non molto meglio. Niente affatto. Nel secolo scorso abbiamo guadagnato altri anni, ma non altra vita, e comunque non una vita che valga la pena vivere’.
E così molti di noi, quando si riflette sulla possibilità di vivere fino a 100 anni, ancora pensano: “Dio non voglia!”, perché abbiamo visto come siano quelle decadi finali dell’esistenza e per gran parte delle persone, il più delle volte, non sembra affatto una prospettiva allettante. Ventilatori e cocktail di farmaci. Fratture dell’anca e pannoloni. Chemio- e radioterapia. Un intervento chirurgico dopo l’altro. E conti dell’ospedale; mio Dio!, i conti dell’ospedale.

Stiamo morendo lentamente e in modo indolore. La gente dei paesi ricchi spesso passa un decennio o più a soffrire di una malattia dopo l’altra alla fine della propria esistenza. Pensiamo che questo sia normale. Poiché la durata della vita continua ad aumentare nelle nazioni più povere, diventerà il destino di miliardi di altre persone. I nostri successi nel prolungare la vita, ha osservato il medico e chirurgo Atul Gawande, hanno avuto l’effetto di “rendere la morte un’esperienza medica”.

Ma se non dovesse essere così? Se potessimo rimanere giovani più a lungo? Non qualche anno, ma decine di anni di più? Se quegli ultimi anni non sembrassero così tanto diversi dagli anni che li hanno preceduti? E se, salvando noi stessi, potessimo salvare anche il mondo?

Forse non potremo mai più avere 6 anni, ma che ne direste di 26 o 36?

Se potessimo giocare come fanno i bambini, a un’età più avanzata della nostra vita, senza preoccuparci di passare alle cose che gli adulti devonofare così presto? Se, dopo tutto, non ci fosse bisogno di comprimere tutto ciò che dobbiamo comprimere negli anni della nostra adolescenza? Se non fossimo così stressati sulla ventina? E se non ci sentissimo di mezza età sui nostri 30 e 40 anni? Se, sulla cinquantina, ci volessimo reinventare e non ci venisse in mente alcuna ragione per non farlo? Se, sulla sessantina, non ci preoccupassimo di lasciare un’eredità, ma di iniziare a costruire qualcosa di nostro da tramandare ai posteri?

Se non ci inquietassero le lancette dell’orologio che camminano? E se vi dicessero che presto —anzi prestissimo —non ne saremo impensieriti?

Be’, è quello che vi sto dicendo.

Sono fortunato che dopo 30 anni di ricerca di verità sulla biologia umana io mi trovi in una posizione unica. Se veniste a visitarmi a Boston, con tutta probabilità mi trovereste a gironzolare nel mio laboratorio alla Harvard Medical School, dove sono professore nel Dipartimento di Genetica e codirettore del Centro Paul F. Glenn per i Meccanismi Biologici dell’Invecchiamento. Gestisco anche un laboratorio gemello alla mia alma mater, l’Università del Nuovo Galles del Sud in Australia. Nei miei laboratori, team di brillanti studenti e dottori di ricerca hanno sia accelerato che invertito l’invecchiamento in modelli sperimentali e sono stati responsabili di alcune delle ricerche più citate nel campo, pubblicate su alcune delle migliori riviste scientifiche del mondo. Sono anche cofondatore di una rivista, Aging, che dà spazio ad altri scienziati per pubblicare le loro ricerche su una delle domande più stimolanti ed eccitanti del nostro tempo, e cofondatore dell’Academy for Health and Lifespan Research, un gruppo di venti ricercatori di punta sull’invecchiamento in tutto il mondo.

Cercando di fare un uso pratico delle mie scoperte, ho aiutato ad avviare numerose società di biotecnologia e sono stato presidente delle commissioni scientifiche dei consulenti di svariate altre. Queste società lavorano con centinaia di accademici di spicco in aree scientifiche che vanno dall’origine della vita alla genomica e alla farmaceutica’. Naturalmente, sono al corrente delle scoperte dei miei stessi laboratori anni prima che vengano rese pubbliche, ma attraverso queste associazioni sono a conoscenza anche di molte altre scoperte trasformazionali in anticipo, a volte un decennio prima. Le pagine seguenti vi serviranno da laciapassare per il “dietro le quinte” e da poltrona in prima fila.

Ricevuto l’equivalente di un cavalierato in Australia e assunto il ruolo di ambasciatore, ho trascorso un bel po’ del mio tempo a informare leader politici e commerciali in tutto il mondo su come la nostra comprensione dell’invecchiamento stia cambiando e su ciò che significhi per l’umanità andare avanti’.

Ho applicato molte delle mie scoperte scientifiche alla mia stessa vita, come hanno fatto tanti miei familiari, amici e colleghi. I risultati —che, si dovrebbe notare, sono completamente aneddotici —sono incoraggianti. Adesso ho 50 anni e mi sento un ragazzo. Mia moglie e i miei figli vi diranno che agisco anche come tale.

Questo comportamento include essere uno stickybeak, il termine australiano per qualcuno eccessivamente curioso, un ficcanaso, forse derivato da corvidi currawongs che erano soliti perforare i coperchi di stagnola delle bottiglie di latte che ci venivano consegnate a casa e a berne il contenuto. I miei vecchi amici di scuola ancora mi prendono in giro per come, ogni volta che capitavano a casa dei miei genitori, mi trovassero a staccare o smontare qualcosa: il bozzolo di una falena, il rifugio di foglie arricciate di un ragno, un vecchio computer, gli arnesi di mio padre, un’automobile. Ero diventato abbastanza bravo in questo, ma non ero altrettanto bravo a rimettere a posto o a riassemblare queste cose.

Non riuscivo a sopportare di non sapere come funzionasse qualcosa o da dove provenisse. Ancora non riesco a sopportarlo, ma almeno adesso mi pagano per farlo.

La mia casa d’infanzia è appollaiata su una montagna rocciosa. Sotto c’è un fiume che scorre fino al porto di Sydney. Arthur Phillip, il primo governatore del Nuovo Galles, esplorò queste vallate nell’aprile del 1788, solo alcuni mesi dopo che lui e la sua prima flotta di marinai, deportati e le famiglie al seguito avevano fondato una colonia sulle rive di quello che chiamava “il porto più bello e più grande dell’universo”. La persona responsabile del fatto che lui fosse lì fu il botanico Sir Joseph Banks, che otto anni prima aveva risalito la costa australiana con il Capitano James Cook nel suo “viaggio intorno al mondo”.

Dopo essere ritornato a Londra con centinaia di esemplari di piante per impressionare i suoi colleghi, Banks fece pressioni sul re Giorgio III per avviare una colonia penale sul continente, per la quale il posto migliore, sosteneva lui, non per caso, sarebbe stata una baia chiamata “Botany Bay” su “Capo Banks”°. I colonizzatori della prima flotta presto scoprirono che Botany Bay, malgrado il suo nome eccellente, non aveva alcuna fonte d’acqua dolce, per cui navigarono fino al porto di Sydney scoprendo uno dei rias più grandi del mondo, un canale profondo e molto navigabile che si era formato quando il sistema fluviale di Hawkesbury era stato inondato dall’innalzamento del livello del mare dopo l’ultima era glaciale.

All’età di 10 anni, avevo già scoperto attraverso l’esplorazione che il fiume nel prato dietro casa scendeva nel Middle Harbor, un ramo del porto di Sydney. Ma non sopportavo più di non sapere dove avesse origine il fiume. Avevo bisogno di sapere che aspetto avesse l’inizio di un fiume.

Lo seguii a monte, lasciando la sua prima biforcazione e, subito dopo questa, entrando e uscendo da diversi sobborghi. Al crepuscolo ero a miglia di distanza da casa, oltre l’ultima montagna all’orizzonte. Dovetti domandare a uno sconosciuto di lasciarmi chiamare mia madre per chiederle di venirmi a prendere. Qualche tempo dopo ritentai la ricerca a monte, ma non mi sono mai avvicinato alla fonte. Come Juan Ponce de León, l’esploratore spagnolo della Florida noto per la sua ricerca apocrifa della Fontana della Giovinezza, fallii”.

Da quando riesco a ricordare, ho voluto capire perché noi invecchiamo. Ma trovare la fonte di un complesso processo biologico è come cercare l’acqua alla sorgente di un fiume: non è facile.

Nella mia ricerca, mi sono fatto strada a destra e a sinistra e avuto giorni in cui volevo arrendermi. Invece ho perseverato. Lungo la via ho visto molti affluenti, ma anche trovato quella che poteva essere la sorgente. Nelle seguenti pagine vi esporrò una nuova idea sul perché l’invecchiamento si sia evoluto e su come si adatti a quella che io chiamo “teoria dell’informazione sull’invecchiamento”. Vi dirò anche perché sono arrivato a considerare l’invecchiamento come una malattia —la più comune malattia —che non solo può, ma dovrebbe essere trattata aggressivamente. Questa è la Parte I.

Nella Parte II vi illustrerò i passi che si possono compiere proprio ora e nuove terapie in corso di sviluppo che possono rallentare, arrestare o invertire il processo di invecchiamento, ponendo fine all’invecchiamento come oggi lo conosciamo.

E sì, riconosco totalmente le implicazioni delle parole “ponendo fine all’invecchiamento come oggi lo conosciamo”, per cui, nella Parte III, riconoscerò i molti possibili futuri che queste azioni potrebbero creare e proporrò un percorso verso un futuro che aspettiamo con trepidazione, un mondo in cui la strategia con cui potremmo ottenere una più lunga durata della vita sarà attraverso una sempre crescente durata della salute, la porzione della nostra esistenza trascorsa senza malattia o invalidità.

Tantissime persone vi diranno che è una favola, più vicina ai lavori di H. G. Wells che a quelli di C. R. Darwin. Alcune di loro saranno molto intelligenti. Alcune saranno addirittura persone che conoscono abbastanza bene la biologia umana e che io rispetto.

Quelle persone vi diranno che i nostri stili di vita moderni hanno avuto la disgrazia di abbreviarci la durata dell’esistenza. Vi diranno che sarà improbabile che arriviate a 100 anni e che anche i vostri figli taglino quel traguardo. Vi diranno che hanno esaminato la scienza di tutto e fatto le proiezioni, e sicuramente non sembra verosimile che anche i vostri nipoti festeggeranno il loro centesimo compleanno. E vi diranno che se arrivaste a 100 anni, probabilmente non ci arrivereste in salute e non vi rimarreste definitivamente a lungo. E se vi concedessero che la gente vivrà più a lungo, vi diranno che è la peggior cosa per questo pianeta. Gli umani sono il nemico!

Hanno buone prove per tutto questo: l’intera storia dell’umanità, infatti.

Certo, a poco a poco, millenni dopo millenni, abbiamo aggiunto anni alla vita umana media, diranno. Molti di noi non arrivavano a 40 anni e poi morivano. Molti di noi non arrivavano a 50 anni e poi morivano. Molti di noi non arrivavano a 60 anni e poi morivano’. Nell’insieme, questi aumenti dell’aspettativa di vita si sono concretizzati quando molte più persone hanno avuto accesso a fonti di cibo e acqua potabile. E in ampia misura la media è stata spinta verso l’alto dal basso; le morti neonatali e infantili sono diminuite e l’aspettativa di vita è aumentata. Questa è la semplice matematica della mortalità umana.

Ma nonostante la media continuasse a salire, il limite non lo ha fatto. Dalla nostra documentazione storica sappiamo di persone che hanno raggiunto 100 anni e che potrebbero averne vissuto qualcuno in più oltre quel limite. Ma pochissimi raggiungono i 110 e quasi nessuno raggiunge 115 anni.

Il nostro pianeta è stato finora abitato da più di 100 miliardi di esseri umani. Ne conosciamo soltanto uno, la francese Jeanne Calment, che apparentemente è vissuta oltre l’età di 120 anni. Molti scienziati ritengono che sia morta nel 1997 a 122 anni, sebbene sia anche possibile che la figlia si fosse sostituita a lei per evitare di pagare le tasse’. In realtà, non ha importanza se abbia raggiunto davvero quell’età oppure no; altri sono arrivati a pochi anni dal raggiungere quel limite, ma la maggior parte di noi, il 99,8% per essere precisi, muore prima di aver compiuto 100 anni.

Quindi ha sicuramente senso quando le persone dicono che potremo continuare a incidere sulla media, ma che probabilmente non sposteremo il limite. Dicono che è facile estendere la durata massima della vita dei topi o dei cani, ma che noi umani siamo differenti. Semplicemente viviamo già troppo a lungo.

Si sbagliano.

C’è anche una differenza tra prolungare la vita e prolungare la vitalità. Noi siamo capaci di entrambe le cose, ma non è una virtù mantenere semplicemente in vita le persone, decenni dopo che le loro esistenze sono state definite dal dolore, dalla malattia, dalla fragilità e dall’immobilità.

La vitalità prolungata, che significa non solo più anni di vita, ma più anni di vita attivi, sani e felici, sta arrivando. Sta arrivando prima di quanto gran parte della gente si aspetti. Per quando i bambini che sono nati oggi avranno raggiunto la mezza età, Jeanne Calment potrebbe addirittura non essere sulla lista delle prime 100 persone più vecchie di tutti i tempi. E all’inizio del prossimo secolo, di una persona che avesse 122 anni il giorno della sua morte si potrebbe dire che ha vissuto una vita piena, anche se non particolarmente lunga. Centoventidue anni potrebbero essere non un’eccezione, ma un’aspettativa, così tanto che non la chiameremo nemmeno longevità; la chiameremo semplicemente “vita” e guarderemo indietro con tristezza al tempo della nostra storia in cui non era così.

Qual è il limite verso l’alto? Non penso ce ne sia uno. Molti dei miei colleghi sono d’accordo”. Non c’è una legge biologica che affermi che dobbiamo invecchiare. Chi dice che dobbiamo farlo non sa di cosa stia parlando. Saremo probabilmente ancora molto lontani da un mondo in cui la morte è una rarità, ma non lontani dallo spingerla più lontano nel futuro.

Tutto ciò, infatti, è inevitabile. Si profila all’orizzonte una più lunga durata di vita sana. Certo, l’intera storia dell’umanità suggerisce altrimenti. Ma la scienza del prolungamento dell’arco della vita in questo particolare secolo dice che i vicoli ciechi del passato sono cattive guide.

Ci vuole un pensiero radicale anche solo per iniziare ad avvicinarsi a ciò che questo significherà per la nostra specie. Niente nei nostri miliardi di anni di evoluzione ci ha preparato a questo: ecco perché è troppo facile, e persino allettante, credere che semplicemente non lo si possa fare.

Ma questo è stato anche il pensiero della gente sul volo umano, fino al momento che qualcuno lo ha fatto.

Oggi i fratelli Wright sono tornati nella loro officina, dopo aver volato con successo con i loro alianti giù per le dune sabbiose di Kitty Hawk. Il mondo sta per cambiare.

E proprio come accadde nei giorni che precedettero il 17 dicembre 1903, gran parte dell’umanità è ignara. Semplicemente non c’era un contesto con cui immaginare come potesse essere un volo di ritorno controllato, a motore; per questo l’idea era fantasiosa, magica, roba da finzione speculativa’.

Poi il decollo. E niente fu mai più come prima.

Noi siamo a un altro punto di inflessione storica. Ciò che finora sembrava magia diventerà realtà. È un tempo in cui l’umanità ridefinirà ciò che è possibile; un tempo in cui mettere fine all’inevitabile.

In verità, è un tempo in cui ridefiniremo ciò che significa essere umani, per cui non è solo l’inizio di una rivoluzione, ma l’inizio di un’evoluzione.


Video dello stesso Sinclair sullo stesso argomento:

David Sinclair | Why We Age and Why We Don’t Have To | Talks at Google

Alcuni video che parlano di questo libro o della ricerca di Sinclair:

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