Eterna giovinezza. Un’idea che viene da lontano

Prefazione di Riccardo Campa al libro La fine dell’Invecchiamento: Come la scienza potrà esaudire il sogno dell’Eterna Giovinezza (Italian Edition) di Aubrey de Grey e Michael Rae

Gli storici delle idee sono, per missione e vocazione, dei guastafeste. Non appena uno scienziato contemporaneo grida «Eureka!», iniziano a tracciare la storia di quella geniale idea, mostrando il più delle volte che le sue origini affondano nella notte dei tempi. Arthur Lovejoy, uno dei fondatori di questa disciplina, arrivò a sostenere una tesi dal sapore platonico: le idee non si inventano, così come non si inventano gli elementi chimici. Al più si creano nuove combinazioni di idee, così come si sintetizzano nuove molecole. Una tesi che è stata, poi, fortemente criticata e che non intendiamo difendere qui. È però vero che chi ha la pazienza e la passione di scartabellare tra vecchi manoscritti, in archivi ammuffiti, può facilmente constatare l’eterno ritorno di certe idee fondamentali.

Una di queste idee ricorrenti è la fine dell’invecchiamento o, per usare un’espressione più radicata nella storia letteraria, l’eterna giovinezza. Si tratta di due concetti non esattamente equivalenti, ma che tendono a coincidere se intendiamo l’aggettivo “eterna” in senso iperbolico. Corollario del “ringiovanimento” non è, infatti, l’immortalità terrena, ma la vita illimitata – una vita della quale non si può stabilire con precisione e certezza la data di scadenza, ma che resta potenzialmente soggetta a morte. Si tratta di un concetto che può anche essere reso, più modestamente, con l’espressione “aumento radicale della longevità”. Nella letteratura in lingua latina si parla più spesso di instauratio juventutis e prolongatione vitae.

[…] Il motivo per cui reputo utile ricostruire la dimensione genealogica dell’instauratio juventutis è presto detto. Come sottolinea De Grey, «la maggior parte delle persone non pensa all’invecchiamento allo stesso modo con cui pensa al cancro o al diabete o alle malattie cardiache. Si è favorevoli a sconfiggere tali malattie il più presto possibile, ma l’idea di eliminare l’invecchiamento, mantenendo indeterminatamente l’organismo in condizioni fisiche e mentali di giovinezza, evoca paure ed incertezze»[1].

Paure, incertezze e – aggiungerei – ostracismi. Chi, oggi, parla di fine dell’invecchiamento viene in genere visto come un apprendista stregone che si è svegliato con una strana idea in testa. E, perciò, viene da molti considerato folle e improvvido, se non addirittura criminale. Il che è assolutamente sorprendente, se si considera che l’elisir di eterna giovinezza rappresenta uno dei sogni più antichi dell’umanità. Chi non ha cercato la soluzione del problema della morte nella medicina o nell’alchimia, lo ha cercato nelle dottrine religiose. Ha riposto fede nell’immortalità dell’anima, nella reincarnazione, o nella resurrezione del corpo. Oggi, invece, persino chi afferma di appartenere a una confessione religiosa, non di rado, manifesta incredulità e persino disaffezione nei confronti dell’idea di eternità del proprio essere.

Lo ha sottolineato anche papa Benedetto XVI nell’enciclica Spe salvi: «Vogliamo noi davvero questo – vivere eternamente? Forse oggi molte persone rifiutano la fede semplicemente perché la vita eterna non sembra loro una cosa desiderabile. Non vogliono affatto la vita eterna, ma quella presente, e la fede nella vita eterna sembra, per questo scopo, piuttosto un ostacolo. Continuare a vivere in eterno – senza fine – appare più una condanna che un dono. La morte, certamente, si vorrebbe rimandare il più possibile. Ma vivere sempre, senza un termine – questo, tutto sommato, può essere solo noioso e alla fine insopportabile»[2].

La promessa di vita illimitata dei biogerontologi non coincide, naturalmente, con la promessa di vita eterna dei teologi. Parliamo di cose diverse, anche se – come ha più volte sottolineato lo stesso De Grey nelle sue conferenze – non necessariamente incompatibili. Si può sperare di prolungare, per quanto possibile, la vita terrena e, nel contempo, nutrire una speranza nella vita ultraterrena. Non entreremo in questa diatriba.

Al di là del suo significato teologico, l’osservazione del pontefice resta sociologicamente molto interessante. Si è perso un desiderio antico come l’uomo. Il che significa che la nostra società è forse affetta da un male profondo. Viviamo in un mondo dominato dal nichilismo, dal desiderio del nulla, dalla speranza di non essere. È scomparso il gioioso desiderio di eternità che troviamo in tanti scritti del passato. Ed è proprio sul motivo di questo cambiamento nella coscienza collettiva che dovremmo davvero interrogarci. Mostrare che l’idea rilanciata da De Grey ha una lunga storia significa, dunque, chiarire che non sono i biogerontologi transumanisti ad essere pazzi. Sono, piuttosto, i nichilisti (consapevoli e inconsapevoli) che hanno perso la rotta.

Note

[1] A. De Grey, M. Rae, La fine dell’invecchiamento, D Editore, Roma 2016.

[2] Benedetto XIV, Spe salvi, <vatican.va>, 30 novembre 2007.

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