Mamma, dimmi che io non morirò mai

Questa scansione è stata ottenuta da un numero della rivista di divulgazione scientifica MIND.

Mia figlia è molto spaventata dal pensiero della morte […]. Purtroppo questa paura si ripresenta di frequente, con terribili crisi di pianto inconsolabile. Inizialmente ho cercato di rassicurarla spiegandole dolcemente il ciclo della vita, ma vedendo che la cosa aveva un effetto controproducente, di fronte alla sua esplicita richiesta “mamma, dimmi che io non morirò mai”, l’ho rassicurata dicendole che a lei non sarebbe mai accaduto. Durante queste crisi mi chiede se anche le altre persone che lei ama (nonni e genitori) un giorno diventeranno vecchi, si ammaleranno e moriranno. Altre volte la abbraccio forte e tento di cambiare argomento, di distrarla e di farla ridere. Mi si spezza il cuore davanti a queste sue paure e credo che siano troppo precoci in una bambina di tre anni.

Una madre

Possiamo chiederci quanto sia moralmente giusto nascondere la verità a un bambino che noi abbiamo scelto di mettere al mondo. Bambino che, senza averlo chiesto, scopre di essere dentro una trappola mortale.

Non solo un nascituro si ritrova in un mondo in cui vi è ignoranza, violenza, e l’incertezza del futuro — incertezza di cui tutti parlano come problema in senso lavorativo o di “minaccia esistenziale” legata a clima/guerre, con impatti sulla salute mentale — ma vi è anche incertezza sulla propria salute, dato che si possono prendere una o più tra le migliaia di malattie esistenti, anche molto gravi, croniche e/o mortali. Già questa lotteria è un problema etico.

Ma, come abbiamo detto, la condizione è ben più grave: oltre a poter subire violenze fisiche e psicologiche e prendere malattie a caso, compresi cancro e malattie degenerative, anche da giovanissimi, c’è poi la certezza di perdere progressivamente la salute e morire. Questo, anche se se ne parla poco o nulla, è il problema etico principale che esiste nel mettere al mondo figli, dato che l’unica certezza che possiamo offrire loro non è la felicità e l’amore, ma la morte. “L’unica certezza di questa vita è la morte”, si dice. Un bel problema, per chi è interessato alla vita, alla salute, alla felicità, e all’amore.

(D’altra parte, esiste una pressione da parte della società per la generazione di manodopera. La società non vede ancora il problema etico di base, forse perché pensa ancora in buona parte come uno sciame, dimenticandosi dell’autocoscienza dei singoli. L’uomo si è vantato per anni di essere l’unico animale con autocoscienza (cosa poi rivelatasi falsa), ma poi non si rende nemmeno conto di non dare valore sufficiente valore a questa autocoscienza, vedendo solo le minacce a livello di “specie”. Chiaramente, piano piano si fa strada l’importanza dello stare bene come singoli esseri umani.)

Ciò che deve essere etichettato come problema, non è il terrore della bambina, ma è ciò che sta alla base del suo terrore, e cioè la certezza della morte, che è ciò che è più temuto. Inutile girarci intorno: la vita, per ora, è di fatto una trappola di morte. Quando fai notare questa cosa, alcuni cascano dalle nuvole, come se non fosse vero.

Le emozioni si sono evolute proprio perché sono state utili per reagire ai problemi, evitarli, prevenirli e risolverli, non per subirli passivamente all’infinito. La morte è un grave problema per molti motivi, pur tenendo presente la nota argomentazione di Epicuro, che rileva che la morte in sé, per il soggetto che è morto, non può essere sperimentata. Tuttavia, questo rilievo non basta per dimostrare che la morte non sia un problema. Infatti, la morte è comunque un danno, sia per chi osserva la perdita dell’altro, sia perché ciò che porta alla morte è la perdita della salute e della prospettiva di vita (per una disamina filosofica approfondita di questo punto si veda anche Bunn, 2015: https://researchoutput.csu.edu.au/en/publications/how-long-ought-we-to-live-the-ethics-of-life-extension-3). Perdita che, per motivi adattativi, è associata a sofferenza, dato l’originario ruolo biologico del dolore, che nell’uomo ha anche dimensioni psicologiche molto complesse. E, quando va “bene”, questa distruzione è lenta e progressiva.

La geroscienza oggi ci spiega che quello che determina, dopo pochi decenni, la certezza della perdita di salute e la morte è l’invecchiamento biologico. La bambina già ha, in qualche modo, questa consapevolezza: mi chiede se anche le altre persone che lei ama (nonni e genitori) un giorno diventeranno vecchi, si ammaleranno e moriranno.

Il problema primario da risolvere (anche se non l’unico) è dunque l’invecchiamento biologico, che causa più di 100 mila morti al giorno, circa i 2/3 di tutte le morti, ed è di gran lunga la principale causa di malattie e disabilità, quindi di sofferenza e infelicità, classificandosi come problema più importante. Un olocausto. Questo perché la salute è la cosa più importante: la salute non è tutto ma senza salute non c’è niente. Nemmeno la libertà.

Il COVID-19, che spaventava tanto, si stima abbia causato circa 20 miloni di morti in 3 anni (stima che si legge a maggio 2023). Calcolate che il numero di morti causate delle malattie associate all’invecchiamento, nello stesso arco di tempo, ammonta a 100,000 x 365 x 3 = 109 milioni e 500 mila. Si tenga conto che l’invecchiamento incide molto anche sulla fragilità delle persone nei confronti dei virus, infatti la maggior parte dei morti da COVID-19 sono di gran lunga nella fascia 80-90 anni. In altre parole, un corpo biologicamente giovane (meno danneggiato, con un sistema immunitario più efficiente e una resilienza maggiore) avrebbe drasticamente mitigato il numero di morti.

Immagine da https://www.afar.org/what-is-geroscience.

La condizione di condanna a morte può causare angoscia

Quanto ci vorrà a capire che la condizione di condanna a morte per invecchiamento, associata fatto che si ha sempre meno tempo per vivere e vivere in salute, “può”, come minimo, mettere angoscia, ansia, e non è esattamente la condizione per essere meno stressati e stare bene? Quanto ci vorrà a realizzare che ciò che uccide non fa stare bene?

Timer indeterminato del tempo rimanente incognito prima che la maggior parte delle persone si renda conto che ciò che uccide (tipo l’invecchiamento biologico) non fa stare bene.

Il punto è che questa percezione stressante non si basa su un problema fittizio, immaginario, esagerato, ma su un qualcosa di reale, grave, mortale, ed inoltre attualmente insuperabile, quindi vi si può associare la sensazione di impotenza e di hopelessness. Il sentirsi in trappola, ed esserlo effettivamente, è una condizione a dir poco stressante, che si manifesterà in vari modi a seconda della inevitabile diversità umana. Probabilmente, molte forme di ansia generalizzata siano associate alla percezione più o meno conscia di dover morire (infatti l’ansia generalizzata è spesso secondaria a problemi di salute, lutti ecc.).

Tutto ciò sembra presentarsi più spesso in chi è entrato in contatto in qualche modo con la morte da bambino, ed è probabilmente un effetto collaterale dell’evoluzione umana che ha portato a selezionare positivamente cervelli sempre più predittivi nel lungo termine. Il cervello è un organo predittivo, quindi scansiona il futuro per prevedere eventuali minacce. Per farlo utilizza anche eventi già accaduti. La particolarità umana, rispetto agli altri animali, è che è arrivato a poter prevedere la certezza della propria scomparsa, con il ragionamento. E l’evoluzione non l’aveva previsto. Non si nasce già sapendolo, lo si apprende con terrore, come si è visto con l’esempio di questa bambina, e di molti altri bambini e persone più grandi.

Per fortuna che la scienza (ma anche la filosofia) ha iniziato a comprendere la situazione a livello più olistico, e ci sono già grandi aziende dedicate a questo fondamentale problema (ad esempio Calico, fondata nel 2013, con obiettivi di lungo termine, ed Altos Labs). Un problema generalmente ancora percepito come tale solo quando si fa sentire a livello di popolazione, e non di individuo. Ma se l’invecchiamento della popolazione è un problema, questo accade perché non ha un impatto positivo sulla salute e vitalità degli individui, che però sono i portatori della coscienza, e quindi della sofferenza, del piacere e della percezione di ogni senso di utilità o scopo.

Il “ciclo della vita”

La psicologa qui parla di spiegare “dolcemente” il “ciclo della vita”, ma giustamente non sembra avere un grande successo. Anzi, addirittura “la cosa aveva un effetto controproducente“. Perché controproducente? Perché a una richiesta di spiraglio, di soluzione, è stato risposto che è una condizione naturale, strutturale, inevitabile. Quindi, una condizione di trappola mortale senza soluzione. Del resto c’è ben poco di “dolce” nel perdere tutto, e osservare il deperimento di sé e dei propri cari, naturale o meno. Quindi è del tutto sensata la risposta di pianto inconsolabile, dato che non c’è modo di consolarsi dalla perdita di tutto ciò che si ama. Si parla tanto di base sicura, ma l’invecchiamento fa sì che il terreno sotto i piedi ceda sempre più, quindi non c’è alcuna base sicura.

Tuttavia, la scienza e la filosofia possono mettere in discussione ciò che viene considerato indiscutibile, e chiedersi: il semplice concetto di “ciclo della vita” presentato alla bambina, che ha avuto effetto controproducente in termini di tranquillizzazione, ha senso dal punto di vista biologico ed evoluzionistico per dimostrare che le cose debbano andare in un certo modo?

Per parlare di questo tema a un livello non superficiale occorre avere forti competenze biologiche e/o fisiche, che normalmente uno psicologo non ha. Infatti vengono tipicamente fatte varie assunzioni arbitrarie:

  • che ci sia un unico tipo di ciclo della vita, per tutte le forme di vita, quindi indipendente dalla loro diversità biologica;
  • che questo “ciclo della vita” sia predisposto apposta così per un motivo, e sia per sempre immutabile, invece che soggetto, esso stesso, ad evoluzione e cambiamento;
  • che la vita sia un fenomeno perfettamente conosciuto, anche in tutti i suoi possibili sviluppi e circostanze, quando in realtà nemmeno è chiara la definizione di vita.

In realtà, il “ciclo della vita inteso” come nascita, crescita, riproduzione, invecchiamento e morte, è una fotografia, una descrizione. Una descrizione di una condizione contingente, variabile, non necessaria e non inevitabile, risultante da un’evoluzione durata un certo tempo in un certo pianeta per certe forme di vita. Non implica previsioni, e non si tratta infatti di una legge di natura universale elementare, come molti credono, ma di un fenomeno emergente molto complesso, soggetto ad evoluzione. (E dal punto di vista etico, la logica e la filosofia sanno da tempo che estrarre prescrizioni da descrizioni è una fallacia logica — “dato che esiste questo ciclo, deve continuare a esistere questo ciclo in questo modo”).

Ogni aspetto di questo ciclo dipende da innumerevoli condizioni a contorno, al punto che troveremo organismi che si riproducono in momenti diversi, non si riproducono, che muoiono prima, che invecchiano dopo, che invecchiano con un andamento diverso o non invecchiano, ecc. Vedi l’articolo in inglese https://nautil.us/why-aging-isnt-inevitable-235931/.

La morte stessa non è un evento scorrelato dalle condizioni fisico-chimico-biologiche, ovviamente. Ogni essere vivente vive finché riesce a funzionare, il che è un caso particolare della conservazione di ciò che è stabile, applicabile a qualsiasi sistema. I sistemi viventi sono sistemi aperti strutturati in vari livelli di organizzazione biologica, e nessun livello di organizzazione è preferito, a priori, in termini di selezione o persistenza.

Per esempio, i livelli popolazione, comunità, biosfera, non risulta abbiano una senescenza, ma appaiono in uno sviluppo potenzialmente continuo, in base alle condizioni al contorno. Poi alcune singole specie animali e vegetali presentano senescenza trascurabile a livello di individuo. La vita è estremamente diversificata, anche per quanto riguarda l’invecchiamento, e non si può fare di tutta l’erba un fascio.

Anche il concetto stesso di “ciclo della vita” è piuttosto grossolano e inappropriato. Innanzitutto perché non abbiamo una definizione universalmente condivisa di cosa sia la vita, quindi non se ne possono definire limiti e potenzialità in generale, e nemmeno prevedere l’evoluzione futura per sistemi specifici, in particolare per l’uomo, che è comunque un caso speciale data la complessità cerebrale, culturale e tecnologica.

In secondo luogo, l’evoluzione è un processo creativo, in quanto ogni essere vivente è unico ed irripetibile (diversità). Ciò è la base del cambiamento e dell’innovazione che caratterizzano l’evoluzione, e cambiamento ed evoluzione sono concetti opposti a quello di ciclo. Un ciclo presuppone una ripetizione sempre uguale, ma non è affatto così per quanto riguarda le forme di vita. L’evoluzione biologica stessa non è un ciclo. Ha avuto un inizio, o più inizi, ma non è chiaro a cosa porterà nelle sue varie ramificazioni.

Potrebbero quindi evolversi sistemi biologici e/o biotecnologici molto più stabili di quelli attuali, anche indefinitamente stabili. La pluricellularità non c’è sempre stata, ma è comparsa ad un certo punto e ha portato a organismi nuovi e molto complessi. La tecnologia umana è una novità assoluta sulla Terra, comparsa a un certo punto della linea temporale, e nessuno sa a cosa può portare.

Essendo l’evoluzione un caso particolare del principio della conservazione di ciò che è stabile, come fa notare l’evoluzionista Richard Dawkins, tutto ciò che risulta essere più stabile, semplicemente tende a persistere di più. Se troviamo il modo di controllare/invertire l’invecchiamento (cosa che, come già rilevato, già sembra accadere in natura in alcuni tipi di esseri viventi nei quali si parla di “senescenza trascurabile”) con la tecnologia, potremmo rimanere in salute molto molto di più, forse a piacimento. E questo non contraddirebbe alcuna legge fisica, né biologica, né etica. Anzi. Si inizierebbe a poter rispettare i diritti umani e ad uscire dal concetto di felicità effimera.

Tra l’altro, non è che come possibili durate esistano solo 80-90 anni o infinito. Vi sono infinite possibili durate di vita. Molti si immaginano che risolvere il problema dell’invecchiamento implichi immediatamente vivere per sempre, ma credere che l’aspettativa di vita possibile sia quella attuale oppure quella infinita (o addirittura l’immortalità) è una falsa dicotomia. Insomma, le opzioni non sono solo 80 anni o infinito, ma vi sono infinite gradazioni, ad esempio 120, 150, 200, 300, 400, 500, 600, 700, 800, 1000, 1500, 2000, 3000, 5000, 7500, 10 000, 15 000, 20 000, 100 000, 205 000, 380 000, un milione, cinque milioni, dieci milioni, cinquanta milioni, duecento milioni, qualche miliardo, duemila miliardi, un milione di miliardi di anni, e altre infinite durate estremamente maggiori di queste, che non c’è modo di concepire ma che sono sempre infinitamente più piccole del per sempre. Chiaramente, quando il sole diventerà una gigante rossa, per sopravvivere occorrerà traslocare in qualche altro luogo. L’universo pare che sia grande. Quando e se ci sarà il big crunch, allora ci sarà ben poco da fare. Ma un problema alla volta, intanto pensiamo al presente.

Siamo tutti diversi, e ognuno ha i suoi tempi, e i suoi desideri in relazione al tempo della vita. Magari qualcuno preferisce 400 anni di vita, altri 70 o 50, altri 10 000, e così via. L’importante è stare bene e non nuocere all’altro. Di certo, accumulando danni (invecchiamento biologico), la persona non va a migliorare la propria condizione di benessere, di salute e di qualità di vita, ma va a oggettivamente a peggiorarla.

Rimanere in salute indefinitamente non implica necessariamente danni a persone o animali, mentre invecchiare li implica certamente (l’invecchiamento stesso è l’accumulo di danni).

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2 pensieri riguardo “Mamma, dimmi che io non morirò mai

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