Un mucchio di ossa è un essere umano?

Human skeleton. Free public domain CC0 photo

A volte nei social si leggono vari commenti sprezzanti su persone che hanno fatto ricorso alla chirurgia plastica:

“È irriconoscibile, è diventata un mostro, non è più lei. La gente non accetta di di invecchiare.”

Ah perché l’invecchiamento, da solo, non rende forsi irriconoscibili le persone? Vediamo.
Stranamente le persone considerano l’invecchiamento come “una ruga”, e si fermano lì.
A parte il fatto che se uno guarda le foto di una stessa persona quando aveva 25 anni e quando ne ha 65, spesso sembra di vedere due persone diverse. E attenzione, non diverse in modo casuale, ma in modo che quella di 70 o più anni appare sempre meno piacevole rispetto a quella di 25. Perché questo? Perché l’invecchiamento è perdita di integrità fisiologica, in altre parole, è un accumulo di danni cellulari, che arrivano a manifestarsi macroscopicamente. E ciò che danneggiato, tende ad essere meno piacevole, per motivi evoluzionistici (vedi perché le cose belle ci rendono felici?).

A parte questo, le persone che riducono l’invecchiamento a “qualche ruga”, dimenticano che l’invecchiamento, se prosegue, va avanti fino a disintegrare completamente una persona, finché, alla fine, non rimane un mucchio di ossa. Il processo va analizzato per intero, fino alla fine, non solo ai primi segni.

A questo punto c’è da chiedersi una cosa: un mucchio di ossa è un essere umano?

Immagino si risponderà di no (come è giusto), non essendo dotato delle qualità che contraddistinguono un essere umano, come la capacità di camminare, vedere, amare, ecc. A meno che non si voglia sostenere che un mucchio di ossa è un essere umano, allora si deve semplicemente ammettere la seguente verità (scomoda): la condizione umana attuale è disumanizzante. Proprio perché la condizione umana attuale porta un essere umano ben integro a quello stato in cui non rimane niente dell’essere umano. Lo disintegra completamente, di fatto rendendolo non più umano. L’umanità richiede integrità, non atomi sparpagliati in giro a caso. La morte è separazione, disordine. La vita è integrità, unità, ordine, armonia.

Polvere eri e polvere ritornerai? Questo non credo

Questo ragionamento sul mucchio di ossa si ricollega a un’altra massima famosa “polvere eri, e polvere ritornerai”, anche questo un errore grossolano. Polvere eri? Veramente anche no. Tu non eri polvere. Nessuno è stato polvere, perché si incomincia ad essere dei soggetti un bel po’ dopo il concepimento, quando i neuroni iniziano ad essere tanti e funzionanti, con memorie strutturate (senza memoria non c’è niente). La polvere non è un soggetto cosciente. Nessuno è stato polvere, e nessuno tornerà polvere. Ma questo purtroppo non annulla il problema dell’invecchiamento, che essendo un processo di accumulo di danni causa perdita, sofferenza fisica e psicologica, e nemmeno quello della morte, che, oltre a essere il risultato di un danno molto grave (lento o veloce), causa enorme sofferenza in chi resta.

Una volta capito bene questo, apparirà evidente come alcuni dei movimenti dipinti superficialmente come disumanizzanti, in realtà non desiderano altro che, semplicemente, non far perdere ciò che contraddistingue l’essere umano, quindi evitare che diventi un mucchio di ossa, che non è un essere umano.

I difensori della tradizione, invece, sono i difensori della disumanizzazione seriale. Lo status quo medio tende a difendere un concetto astratto e contraddittorio di umanità, fregandosene totalmente dei singoli esseri umani. Si vogliono preservare dei “cicli” (senza mai averli studiati e capiti nei loro fondamenti, peraltro), ma non preservare le vite, che sono le portatrici della coscienza, dei sentimenti e delle differenze.

Come giustificazione etica, non si fa altro che proporre l’argomento: “È naturale, quindi va bene”. Fallacia logica ben nota ma frequentissima. Non ve ne sono altre.

E non si è imparato nulla dal dolore, il cui ruolo è proprio segnalare situazioni problematiche da risolvere, ad esempio la morte di sé stessi e delle persone amate. La sofferenza serve per imparare dagli errori, memorizzandoli bene, ma se la questa si ripete sempre uguale all’infinito, vuol dire che non si è imparato niente.

Si critica l’intelligenza artificiale (che muove i primi passi) di non capire e non generalizzare dagli esempi, quando noi stessi falliamo miseramente nell’apprendimento dopo una quantità spropositata di esempi su piacere e sofferenza, vita e morte.

Il filosofo Emanuele Severino, non a caso, fa notare che “accettare il dolore significa” volere ciò che è non voluto, dato che il dolore è tale proprio perché ha la natura del non voluto: “accettare, volere ciò che non si vuole può definire un tratto essenziale dell’errore e della follia”. Direi anche dissonanza cognitiva.

Comunque, nessuno “nasce imparato”, e la consapevolezza media dell’importanza della salute sta aumentando.

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